giovedì 25 settembre 2014

Ritratto di Milena Vukotic

Il 17 agosto  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Milena Vukotic




Milena Vukotic: "Io, protagonista non protagonista tra Buñuel e la signora Fantozzi"

L'attrice nota al grande pubblico nei panni della "signora Pina": "Paolo Villaggio mi ha messo in uno schema che ho cercato di alleggerire e forzare con altre parti"
di ANTONIO GNOLI

 Lettera a Milena. Piacerebbe iniziare questo "straparlando" con una lettera a Milena Vukotic. Per dirle: "Cara Milena, lei è una straordinaria attrice che da sola avrebbe potuto arricchire un pezzo di storia del cinema e del teatro italiano. E se ciò non è accaduto è per l'insipienza e la pigrizia di tutti coloro, tra i registi importanti e no, che l'hanno usata senza accorgersi del dono prezioso che avevano tra le mani".

Ma poi penso che le vite vanno prese per quello che sono e che anche nel piccolo, soprattutto nel piccolo, c'è, inatteso, del grande. Sovente misconosciuto. In una mattina di sole aspro Milena Vukotic mi attende nella sua casa romana del quartiere Salario. Una blusa leggera, pantaloni chiari e un trucco lieve che adorna due occhi in permanente stupore mi accolgono con calma e un moto di apparente tristezza. Tutto intorno, nella stanza che è poi lo studio dove l'attrice lavora, libri e foto di famiglia dove un passato musicale sembra affiorare con evidenza: "Vede, quello grande è il ritratto della nonna. Una donna straordinaria. Pianista eccelsa, dicono. Morì di febbre gialla a Rio dopo aver dato alla luce mia madre che dunque per caso, e per sventura, nacque in Brasile. E il governo di quel paese, per quei fatti drammatici, le assegnò una pensione a vita".

E restò lì?
"No, tornò in Italia e fu affidata a una famiglia per bene che le fece a sua volta studiare pianoforte".

Che anni erano?
"Nonna Gemma era del 1867. Era nata a Pisa e cominciò a fare concerti a sette anni. C'era già allora la moda dei bambini prodigio. Morì a 26 anni. Fatti due conti direi che la mamma cominciò a studiare pianoforte e composizione ai primi del Novecento. Fu allieva di Casella e Respighi e tra i compagni di corso a Milano ebbe Victor de Sabata".

Che ricordo ne ha?
"Di una donna libera e generosa. Non avendo avuto una vera madre ha sempre sognato di esserlo pienamente. Nonostante la carriera di concertista ebbe 4 figli".

E il nome Vukotic?
"Da mio padre, le cui origini erano slave, precisamente montenegrine. Strana figura di letterato e diplomatico. Studiò un po' di musica, venne a Roma e all'inizio entrò nella cerchia dei futuristi. Parlava a volte della sua esperienza con il teatro di Bragaglia. Alla fine, la carriera di diplomatico prese il sopravvento. Ho passato la mia infanzia viaggiando: Londra, Vienna, poi in Olanda e a Istanbul e soprattutto a Parigi che fu la mia città formativa. Coincise con la separazione dei miei genitori".

E lei?
"Ero giovane, un po' turbata e silenziosa. Mio padre se ne andò, fu un addio senza veri traumi. Mia madre aveva il suo lavoro, necessario per provvedere a tutto. Fui sistemata in un pensionato e mi dedicai alla danza. Anni importanti che arricchirono la formazione artistica. Nel saggio finale al Conservatorio ebbi il primo premio e questo mi consentì di entrare all'Opera di Parigi".

Sorprende un po' questo esordio nella danza.
"Perché? Dopotutto per alcuni anni è stata la mia compagna, la mia abitudine. Per sei mesi lavorai con Roland Petit e poi, avendo bisogno di guadagnare, entrai nella compagnia del maestro de Cuevas. Fu un'esperienza meravigliosa che durò tre anni. La compagnia, sotto l'egida di quest'uomo straordinario, per importanza era succeduta ai balletti russi di Diaghilev. E molte stelle come Hightower, Skibine e un giovane Nureyev vi presero parte. Ma quando arrivò Nureyev io non c'ero già più".

Perché decise di abbandonare un mondo così promettente?
"In Italia la danza era considerata un'arte per pochi eletti, un piccolo mondo chiuso. E anche vagamente pretenzioso. D'altro canto, a Parigi avevo studiato anche teatro ".

E il cinema?
"Arrivò in modo curioso, dopo che vidi La strada di Federico Fellini. Fu un colpo di fulmine. Un incantamento. Io che non sono mai stata sicura di niente fui sicura di volerlo incontrare. Giunsi al suo cospetto con una lettera di presentazione che dimenticai di dargli. Restai a lungo muta. Ma era un silenzio senza imbarazzi. Mostrò interesse alla mia storia. Promise un suo interessamento. Furono le basi per una collaborazione e un'amicizia che sarebbe durata nel tempo. Fino alla fine".

Negli ultimi anni, si dice, fosse un uomo amareggiato.
"Sentiva che le porte del cinema, che per lui erano sempre state spalancate, non si aprivano più. Una sera venne da me a cena. C'era anche Paolo Villaggio. Scoprii, improvvisamente, un uomo malinconico. Paolo era scintillante, provocatorio, surreale. Federico si ritraeva come a giustificare un'assenza. Quando ci fu il commiato, guardandomi si scusò di non essere quel maestro di ironia alla quale ci aveva abituati. Disse: "Scendere a patti con la vita è meno piacevole di quello che può sembrare". Sono sicura che non si sarebbe ammalato se avesse continuato a lavorare".

Lo ha visto negli ultimi giorni?
"Passò le ultime settimane al Policlinico. Andavo tutti i pomeriggi. Ricordo l'assembramento dei fotografi e dei giornalisti. Federico era in coma. Poi arrivò la notizia della sua morte. È strano. Ma, quella domenica, non c'era nessuno ad accoglierla. Solo io, il suo parrucchiere e un suo aiuto. Ci guardammo e l'aiuto disse: "Forse dovremmo farlo sapere al Vaticano che Fellini è morto. E che suonino le campane di Roma". Telefonammo. Ci risposero che solo i papi e i sovrani avevano diritto alle campane della città".

Non ha lavorato molto con Fellini.
"Non tantissimo. È prevalsa l'amicizia. Del resto, non ho mai chiesto nulla. Una volta che eravamo assieme mi disse: sai tra i miei sensi di colpa, e sono tanti, c'è anche quello di non averti dato dei ruoli importanti".

Come reagì?
"Mi sembrò di arrossire. Non me lo aspettavo. Gli risposi: tu sei il cinema. Tu decidi. Ed è vero. Ricordo che quando Buñuel mi chiamò per un ruolo nel Fascino discreto della borghesia , Fellini fu il primo a cui lo dissi. Ne fu felice. Stimava tantissimo Buñuel: "È il solo che sia riuscito a trasformare i sogni in realtà", commentò e aggiunse: "Ma quanti anni ha?". A Parigi, dove giravamo, riferii a Buñuel l'apprezzamento. "Ah, grande Fellini. Che età ha?", chiese divertito".

Com'era Buñuel sul set?
"Poteva farti fare qualunque cosa. Ma senza imporla. Solo con il fascino e la delicatezza dei suoi modi. Interpretavo una cameriera che doveva dire di essere stata lasciata dal suo fidanzato. Lui cambiò il copione e aggiunse: perché troppo vecchia. Venne da me e mi disse: non le dispiace sembrare una donna di 70 anni?"

E davvero non le dispiacque?
"No, siamo strumenti, in un certo senso involontari. Con Buñuel ho fatto tre film, tra cui l'ultimo: L'oscuro oggetto del desiderio . Ero stato a trovarlo a Parigi e mi disse che non aveva ruoli per me. Poi incontrai a Roma Fernando Rey che mi avvertì che stava cambiando la sceneggiatura: scrivigli e vedrai che qualcosa uscirà. Ero scettica. Ma gli scrissi. Mi rispose, era il 1976, con una letterina dall'Hotel Aiglon, dove soggiornava e mi ribadì, insieme agli elogi, che non aveva parti per me".

E lui?
"Mi guardò con l'infinita pena che hanno certi vecchi e disse: "Dovevo essere completamente ubriaco". Poi si fece portare una penna. Prese il libro. Lo aprì. E scrisse: " Nous sommes toutes des hommes, soi disant, libres. Croyez moi, Milena" . Ecco cosa intendo: il suo cinema, tra le diverse cose raccontava anche la sua disillusione".

E poi come arrivò a fare il suo ultimo film?
"Una mattina mi arrivò un telegramma nel quale si diceva che c'era un ruolo anche per me".

Come è stato passare da Buñuel al ruolo della "signora Pina" la moglie di Fantozzi?
"Quel ruolo non fu creato per me. Sono subentrata. Avevo conosciuto Villaggio in televisione: una personalità prorompente. La sua intelligenza per me è stata un arricchimento continuo. Ha creato la maschera di Fantozzi attorno alla quale ha fatto ruotare una galassia di facce straordinarie. Tra cui la mia. Che ho interpretato con la consapevolezza di stare recitando un cartone animato".

Una figura totalmente disincarnata?
"Senza contatti con la realtà".

Eppure condannata in un certo senso a essere riconosciuta come la "signora Pina".
"Effettivamente, Paolo mi ha messo in uno schema. Ma ho cercato di alleggerirlo e di forzarlo con altre parti, altri ruoli".

Lei dà l'idea di una donna molto schiva.
"Sì, ma sono migliorata. La timidezza è oggi meno evidente ".

La timidezza è stata una forma di sofferenza?
"Ci si sente meno normali. Incapaci di partecipare alla vita come vorremmo".

E sulla scena?
"Ci si disfa delle paure, dei pudori, delle resistenze. C'è una parte di noi che ha bisogno di esprimersi. E ringrazio coloro con cui ho lavorato: Strehler, Zeffirelli, Enriquez, Missiroli e il mio amico fraterno Paolo Poli. Sto parlando di teatro".

E il cinema?
"Mi dà più felicità, ma anche meno coinvolgimento. Ho lavorato con quasi tutti i registi e con i più grandi attori. E pensare che al mio esordio Renato Castellani, al quale ero stata presentata mi disse: per fare cinema dovresti essere o bella come Gina Lollobrigida oppure profonda come Anna Magnani. E tu non sei né l'una né l'altra. Lascia perdere ".

È sempre stata così martoriata?
"Abbastanza da potermene alla fine fregare. Non ho quasi mai scelto io le cose da fare. Sono le cose che hanno scelto per me, quello che mi è stato proposto ho valutato come affrontarlo".

Si sente in credito con la vita?
"È buffo. Ma non ho rimostranze. In fondo mi ritrovo più a mio agio nel surreale che nel reale".

Perché?
"Mi fa volare, mi fa andare oltre. È come il passo di danza che si sforza per vincere la gravità del peso".

La realtà diventa così più leggera?
"La si guarda con altri occhi e si finisce con l'accettarla con altri occhi".

Crede in dio?
"Dio non ha avuto un posto privilegiato. Niente nella mia famiglia è stato all'insegna della normalità. Il legame più forte fu con mia madre. Totale. Fino alla sua morte. Solo dopo sono riuscita a sposarmi. E quanto alla fede penso che da qualche parte c'è un'energia da cui si può attingere. Ma senza che tutto questo venga regolarizzato. In nessun modo. Dio è come leggere un libro pieno di sorprese".

Cosa sta leggendo?
"Un libro sul silenzio".

Le piace il silenzio?
"Non posso dire che mi piace. Amo la compagnia. A volte sono attratta dalla possibilità che attraverso il silenzio si possano sentire altre voci, altri suoni. Una musica parallela o alternativa".

È una donna alternativa.
"In che senso?"

Una protagonista senza protagonismo.
"Sono contenta per tutto quello che ho realizzato. Anche se qualche rimpianto può esserci".

Per il fatto che il cinema non le ha dato la centralità che meritava?
"Penso sempre che non sia mai troppo tardi. Sono qui in attesa. Intanto vado avanti".

Non pensa di essere fuggita dalla sua bravura, a cominciare dalla danza?
"Evidentemente non ero così brava. Ma non sono mai fuggita da niente, soprattutto da me stessa. E non è questione di responsabilità, ma di modo di essere e di stare al mondo".

Che impressione le faceva, non come regista ma come uomo?
"Credo che la grande esperienza surrealista degli anni Venti e Trenta lo avesse segnato definitivamente. C'era in lui la malinconia dell'anarchico".

Cosa intende dire?
"Glielo posso tradurre con un episodio. Quando terminò l'impegno nel primo film, acquistai la monografia di Freddy Buache su di lui. Nel congedarmi volevo chiedergli di firmarmela. Ma non ebbi il coraggio. Poi, durante la notte sognai che Buñuel apponeva sul libro la seguente dedica: "Siamo tutti uomini liberi". Il giorno dopo, sull'onda di quel sogno, tornai sul set. Durante una pausa mi avvicinai raccontandogli della dedica che avevo sognato".

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